Giocare alla Di Stefano

Roberto Beccantini7 luglio 2014

Se n’è andato, a 88 anni, Alfredo Di Stefano. Prese il ruolo del centravanti, e lo moltiplicò. Era un altro calcio, d’accordo: più piccolo, più vago, forse più facile. Ma fu lui, soprattutto lui, a trasferirlo nella modernità, anticipando quel «totalitarismo» che poi gli olandesi avrebbero innalzato a eresia negli anni Settanta.

Pelé e Diego Maradona sono stati il massimo. Di Stefano è stato tutto. «Falso nueve», quando l’etichetta non era né una bava di etica né un segno su una valigia. Cannoniere. Mediano. Difensore. Di Stefano ha fatto la storia del Real Madrid e della Coppa dei Campioni, di cui divorò le prime cinque edizioni. Di Stefano, Puskas, Gento: musica, maestro. Francisco Gento teneva e arava la sinistra. Ferenc Puskas coltivava le zolle che poi si sarebbero aperte ai dribbling di Maradona e Messi. Don Alfredo copriva e scopriva gli spazi, direttore d’orchestra e umile orchestrale a seconda delle esigenze.

«Giocare alla Di Stefano»: ancora oggi si dice e si scrive così. Ognuno è figlio del suo tempo, e anche Di Stefano lo è stato. C’è però chi li impone, i tempi, e chi li subisce: la differenza è tutta qui. Di Stefano li ha anticipati, addirittura. E ci è riuscito nonostante una singolare e clamorosa latitanza: i Mondiali. Mai una fase finale, mai. Non gli è bastato giocare in due Nazionali (Argentina, Spagna) e sfiorarne una terza (Colombia). Il destino l’ha sempre aspettato al varco: o non c’era la squadra, o lui era infortunato, come in Cile nel 1962.

La fame sofferta da ragazzo l’aveva spinto a farsi cannibale in campo. Anche per questo, è diventato Di Stefano. Ne «Il più mancino dei tiri», Edmondo Berselli cita una frase di Adolfo Pedernera, suo maestro al River: «Ragazzo, di questo gioco campiamo tutti: vedi di darti una regolata». Per fortuna, non gli diede retta.

Il confine

Roberto Beccantini6 luglio 2014

Immagino che, per i cultori del pensiero unico, partite come Olanda-Costa Rica assomiglino al ruttino che scappa a tavola e sequestra per un attimo l’imbarazzo generale. Da una parte, gli inventori del calcio totale declassati a concessionari di un calcio quasi tappetaro, con tanto di difesa tre (ripeto: a tre). Dall’altra, la zucca che per farsi carrozza deve alzare trincee da piccolo mondo antico.

E chi se ne frega. A un lettore è venuta in mente Olanda-Italia di Amsterdam, semifinale degli Europei 2000: 0-0, espulso Zambrotta, ancora 0-0, rigori prima, rigori dopo, Toldo para-molto (se non proprio tutto), fino al cucchiaio di Totti. «Alla ricerca del calcio perduto» è un libro di interviste raccolte da Nicola Calzaretta. E’ Demetrio Albertini a tornare su quella omerica disfida. Cita la battuta di un compagno: «Li abbiamo rinchiusi nella nostra area di rigore e non li abbiamo fatti più uscire!».

Splendida: riassume la storia del calcio – o, almeno, di un certo calcio, né volgare né rozzo – e va oltre la cronaca della singola partita. Incarna la resistenza di Keilor Navas, il miglior portiere del Mondiale, e la mossa regina di Van Gaal, fuori il portiere da centoventi minuti e dentro, agli sgoccioli dei supplementari, il portiere da undici metri. L’avremmo sbranato, se non gli fosse andata come poi gli è andata: Krul due, Navas zero, Olanda in semifinale, Costa Rica a casa.

Si chiama favola, l’avventura di Costa Rica. Il suo catenaccio mi ha commosso. D’accordo, santo palo e santa traversa tifavano per coach Pinto e i suoi «Ticos», ma il calcio non morirà mai proprio per questo. Non basta chiamarsi Robben per vincere, né Gamboa per perdere. La democrazia degli episodi mescola le carte, tanto che per fare poker, a volte, bisogna ricorrere a un colpo di «c»: casualità, competenza, coerenza, coraggio. Ho dimenticato qualcosa?

Quando il gioco si fa duro

Roberto Beccantini5 luglio 2014

Hummels di testa, da punizione. Thiago Silva con il ginocchio, da calcio d’angolo. David Luiz su punizione. (E poi James Rodriguez su rigore). Non una rete su azione. I difensori hanno orientato i quarti. Non solo con i gol, ma anche con l’atteggiamento. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare; e a segnare.

Al netto di un equilibrio spaccato più dagli episodi che da vere e proprie dittature, Francia-Germania 0-1 e Brasile-Colombia 2-1 ci hanno raccontato due storie di calcio. La prima è stata camomilla; la seconda, caraffa di caffè. Non è un caso che abbiano deciso quelli che i francesi chiamano «domestiques», gregari. Loew ha riesumato Klose e affidato al palleggio la gestione della partita, sbloccata già in avvio. Tra i bleus mi ha deluso Pogba. Lezioso, fumoso. Non credo che siano stati cinque metri più avanti o più indietro a zavorrarne la personalità. A 21 anni, resta un fior di giocatore e un progetto di fuoriclasse. In attesa di scegliere il ruolo – in futuro alla Pirlo, ma oggi? – deve imparare a prendere le grandi partite per le corna. Già a Istanbul l’aveva presa per la coda.

Brasile e Colombia si sono graffiati ai cento all’ora. Mi arrendo di fronte a simili baraonde, soprattutto in rapporto ai ritmi sbadiglianti dei nostri, dalla Nazionale ai club. Neymar e James Rodriguez si sono messi l’elmetto, a differenza di Pogba, e così conciati hanno accettato la caccia al talento.

Manca un rosso a Julio Cesar: l’arbitro, spagnolo, ha «contato» molto ma «pesato» poco (i falli). Parafrasando il Messico di Porfirio Diaz, la squadra di Scolari mi è parsa molto lontana dal samba e molto vicina al «batti e corri» degli europei. La squalifica di Thiago Silva complica la semifinale con la Germania. David Luiz, assatanato, continuo a preferirlo davanti alla difesa più che al centro. Cuadrado è sceso di rendimento, non ho capito l’impiego di Guarin: legato alla propria area, serve a poco.